Il progetto che illustriamo è stato approvato dalla Regione Veneto con Decreto direttoriale n. 110 del 07 ottobre 2019  e “Finanziato dalla Regione Veneto con risorse statali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali” con un contributo per 21.900,00 €uro.

Descrizione del progetto: “VOLONTARIATO ED INCLUSIONE DELLE FRAGILITA’ PSICOSOCIALI- Un percorso di formazione e intervento in contesti multiculturali”

Nonostante la popolazione con un background migratorio ponga in evidenza probabilità più alte di presentarsi ai servizi sociali e sociosanitari del welfare locale, gli operatori mettono talvolta in luce difficoltà nell’attingere a efficaci metodologie di valutazione ed intervento. È una difficoltà rilevabile nei servizi assistenziali per la popolazione residente, così come nei servizi di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo.

I problemi e i bisogni che queste persone pongono ai servizi socio-sanitari sono certamente multifattoriali ed intrecciano molteplici dimensioni che occorre tenere contemporaneamente presenti. Si pensi alle condizioni economiche (la dotazione di reddito, l’accesso al lavoro, ecc.), di genere (si pensi alle diverse implicazioni psico-sociali dell’essere uomini o donne), di status giuridico (il detenere o meno un permesso di soggiorno o la cittadinanza), sociali (il poter contare sul capitale sociale di molteplici reti formali e informali), sanitarie (l’essere o meno in buona salute), ecc. Una di queste, tuttavia, assume particolare rilevanza ed attiene alle appartenenze culturali. Gli utenti dei servizi con un background migratorio sono spesso caratterizzati da visioni del mondo, delle relazioni, della salute, del corpo, dell’identità, così come da abitudini e stili di vita che possono essere molto diverse da quelle diffuse nella società occidentale ospitante. Tale differenza, come già anticipato, può rafforzare il rischio di marginalizzazione ed esclusione sociale, con inevitabili ripercussioni anche dal punto di vista psicologico. Agli operatori dei servizi socioassistenziali, socioeducativi e sociosanitari è dunque richiesto di saper decodificare queste differenze, al fine di cogliere le effettive dimensioni dello svantaggio manifestato dagli utenti nonché le risorse di cui essi sono portatori, per instaurare un percorso di intervento che non dia luogo a pratiche inconsapevolmente oppressive e lesive dei diritti fondamentali, ma che costruiscano efficaci progetti fondati sui principi dell’inclusione e della partecipazione attiva (Galesi D., Ethnopsychological Consultation:
a Tool for Strengthening of Partneships in Multicultural Social Work, in M. Granosik et al., Participatory Social Work: Approaches, Barriers, Critique, Jagiellonian University Press, 2019).

Tra gli approcci che supportano gli operatori dei servizi socioassistenziali, socioeducativi e sociosanitari nel costruire un’efficace relazione di aiuto per le persone con background migratorio è da tempo focalizzato quello della  presa in carico transculturale (Moro M. R., De La Noe Q., Mouchenik Y., Baubet T., Manuale di psichiatria transculturale. Dalla clinica alla società, FrancoAngeli, Milano, 2009). La sua metodologia ha l’obiettivo di affrontare il disagio psicosociale della persona secondo criteri di analisi e modalità comunicative affini alle società non occidentali.

Tra i principali snodi operativi, si ricorda la presa in carico del problema in un setting relazionale di gruppo. In molte culture, infatti, la relazione di aiuto condotta attraverso una comunicazione duale espone la persona bisognosa di cure ad un’eccessiva influenza e potere. L’utente si sente maggiormente a proprio agio quando lo scambio tra helper ed helpee è mediato dalla presenza di un “terzo”, sia esso la famiglia, la comunità, il vicinato, amici. Se, dunque, nel mainstream dei servizi di welfare occidentali si ricerca spesso una conversazione con l’utente basata sulla massima intimità e privacy, per persone con background socioculturali diversi può essere percepita come una situazione rischiosa: chi cura, in altri termini, è anche una persona dotata di risorse e poteri che possono essere usati nella maniera sbagliata. Il gruppo, in questa prospettiva, ha una funzione assicurante e consente una presa in carico più empatica e solidale del problema.

Un contesto di cura gruppale è inoltre coerente a molte teorie eziologiche del disagio. In molte culture l’intera comunità è coinvolta nel malessere dell’individuo in quanto si presuppone che non sempre chi ne è colpito sia in realtà il vero bersaglio: si ritiene cioè che l’agente del male, concepito talvolta come un’entità metafisica, possa attaccare i membri più deboli in virtù di altri scopi. Si rende perciò necessaria una ricerca collettiva del senso di ciò che è capitato al singolo (ibidem: 112).

Al fine di realizzare efficaci analisi delle problematiche psicosociali e appropriati percorsi di intervento, il metodo etnoclinico e transculturale si sostanzia nella realizzazione di consultazioni gruppali. La pluralità dei partecipanti non è prevista soltanto dal lato dell’utenza, ma anche degli operatori. Nell’intento di favorire una presa in carico multidimensionale, questa consultazione è animata da più co-terapeuti di lingua, cultura e formazioni diverse. I terapeuti esperti, con il compito di coordinare la consultazione, hanno un background formativo di tipo psicanalitico. Nell’équipe possono poi essere incluse anche altre figure di carattere medico, socioeducativo e socioassistenziale, accomunate anche da una formazione di tipo socioantropologico. Secondo l’approccio complementarista (Beneduce, Etnopsichiatria, Carrocci, Roma, 2017) perseguito da questa metodologia, per un efficace percorso di aiuto è necessario attingere a riferimenti sia delle scienze socioantropologiche, allo scopo di decodificare la specificità di vissuti e pratiche culturalmente differenti, sia delle scienze psicosociali, per impostare un adeguato supporto emotivo alla persona in consultazione, promuovendo la collaborazione solidale di tutto il gruppo.

Una tale metodologia è utilizzata in diverse regioni italiane. In Veneto opera dal 2001 l’associazione MetisAfrica (www.metisafrica.org) che ha sede a Verona. Attraverso l’attività professionale prestata a titolo di volontariato da una pluralità di figure (psicoterapeuti, psichiatri, psicologi, sociologi, psicopedagogisti, educatori, mediatori, traduttori e consulenti provenienti da altre civiltà), questa associazione realizza diversi interventi, sia in ambito italiano, sia in Africa (Mali).

Nell’ottica del presente progetto, si menzionano tre principali piani di lavoro da realizzare nel comune di Verona:

  1. percorsi formativi per operatori e volontari;
  2. consultazioni per utenti dei servizi socioassistenziali, sociosanitari, socioeducativi;
  3. laboratori socioeducativi per minori.

       Tali piani di lavoro sono guidati dai seguenti obiettivi:

  1. Le attività formative si propongono di approfondire gli strumenti utili a decodificare le fragilità psicosociali e i percorsi di marginalizzazione vissuti dalla persona nella società contemporanea, ponendo particolare attenzione ai processi di esclusione vissuti da persone con background migratorio, per costruire percorsi di aiuto che facilitino l’inclusione, la partecipazione attiva e l’empowerment.
  2. Le attività di consultazione intendono supportare gli operatori nella fase di assessment (valutazione del problema) e di co-costruzione dell’intervento, supportando la presa in carico dei servizi socioassistenziali, sociosanitari, socioeducativi del territorio.
  3. I laboratori hanno la finalità di coinvolgere minori appartenenti a famiglie sia con background migratorio (esposti in misura maggiore a rischi di disagio psicosociale e di marginalizzazione durante l’adolescenza), sia della più ampia comunità territoriale, in attività socioeducative che promuovano l’autoespressione fondata su principi non performativi, la reinclusione sociale e la prosocialità multiculturale.

L’ordine di presentazione degli obiettivi orienta anche la scansione temporale delle fasi di attuazione.

Fase 1

La prima fase del progetto è dedicata alla realizzazione di percorsi formativi per professionisti, volontari, nonché cittadini interessati e attivi nell’ambito di queste problematiche, in modo da sedimentare un sapere multidisciplinare condiviso utile a individuare le forme emergenti di fragilità ed esclusione psicosociale e a costruire percorsi multiprofessionali di intervento fondati sulla collaborazione progettuale tra enti pubblici e del privato sociale (es. associazioni e cooperative), con particolare attenzione alla promozione del volontariato giovanile.

Fase 2

La seconda fase si concretizza nell’organizzazione di consultazioni etnocliniche sul territorio per gli utenti individuati nel corso della fase formativa o anche successivamente. Queste consultazioni prevedono la partecipazione anche degli operatori dei servizi al fine di una presa in carico integrata. Le consultazioni possono essere attivate sia per nuovi utenti dei servizi, sia per utenti già seguiti da tempo, rispetto ai quali vi è la necessità di comprendere più a fondo bisogni e risorse, nonché di rivalutare i percorsi di intervento già attuati.

In questa fase sono altresì previste supervisioni con operatori professionisti e volontari, finalizzate a rafforzare gli strumenti di presa in carico e intervento.

Fase 3

Nella terza fase sono avviati laboratori socioeducativi per un sottogruppo più specifico, attinente i minori appartenenti a famiglie del territorio, sia con background migratorio, sia afferenti alla comunità locale ospitante. Attraverso la collaborazione con gli operatori professionali e volontari dei vari enti che partecipano al progetto, sono organizzate attività di tipo sia residenziale (5-7 gg.) sia semiresidenziale (incontri a cadenza settimanale nel corso dell’anno).